Qualcuno ha detto Smart Working?

Massimo Azzolini
il Blog di Giallocobalto

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In questi giorni di quarantena, ho letto o incrociato almeno 30 post sullo Smart Working. Ho quindi brillantemente dedotto che il mondo sentisse davvero forte l’esigenza di leggere il 31-esimo.

La prendo da un punto di vista differente.

Il lavoro remoto è stato un obbligo non una scelta. È facile osservare che, come è ovvio che accada, abbiamo tutti cercato di riorganizzare le nostre abitudini cercando una zona di comfort in cui (ri)sistemarle.

Un momento dopo abbiamo pensato agli altri ed è quindi uscita tutta una serie di post di suggerimenti e consigli.

Credits: Antonio Schiena

Alcuni erano legati alla contingenza del momento, alla quarantena, ma disegnati con un garbo e una sobrietà tali che meritano di essere riproposti.

Altri invece, come Roberto Falcone, hanno condiviso elenchi di strumenti utili per collaborare al meglio oppure hanno raccontato la loro esperienza professionale di team che da anni lavorano remotamente.

Tutto risolto? Uhm, non ne sono convinto. Leggo o sento commenti sul “dopo” che oscillano da un estremo all’altro.

In tanti avranno gustato la libertà di un lavoro autonomo, la dolce mancanza del viaggio casa-ufficio, la serenità di isolarsi per qualche ora dalla frenesia dello studio e di potersi concentrare.

Allo stesso tempo, ci aspettiamo che si esca, anzi siamo sicuri che usciremo, in un certo momento, da questa emergenza. Torneremo a fare gioiose passeggiate nei centri affollati e, intimamente, siamo convinti che torneremo a lavorare nello stesso modo cui ci eravamo comodamente abituati.

Michele Sciabarrà descrive bene il sottile e sotterraneo nemico dello smart working.

“Lavoro da casa. Lo vedi che non ci sono abituati. Che il ritmo viene scandito dall’andare in ufficio, sedersi alla scrivania, e aspettare che le cose da fare ti arrivino addosso. Continuare fino alle 6 e poi rientrare a casa. E vedi che messi a lavorar da casa, si comportano come lo studente che deve fare i compiti a casa. Lunedì, rimandano. Martedì fanno qualcosina, giusto per, ma senza impegno. Mercoledì, eh, ma chi mi controlla? Giovedì poi lo passi su Skype […]. Eh no. Così non funziona. Il lavoro non si fa da solo, manco da remoto. Da remoto la gente non viene a cercarti ogni minuto per ricordarti cosa fare. Tocca darti una regolata. […]”

Nel momento in cui finirà l’emergenza avremo la tentazione di portare il lavoro remoto all’interno delle organizzazioni. Il rischio è che si possa associare lo smart working all’insieme di tool da utilizzare per sostenerlo e quindi pensare che si tratti solo di offrire alle persone gli strumenti adeguati.

Vedo stagliarsi imperiosi all’orizzonte due sogghignanti ostacoli.

Il primo sarà il modo di ragionare che ci è stato insegnato, che abbiamo assorbito e che spesso il management impone. Si lavora per compiti, per attività. Lo scopo è di chiudere, entro una certa scadenza, con qualcuno che assegna e controlla. Esattamente quello che descrive Michele.

Il secondo è l’atavica necessità di socialità che come esseri umani ricerchiamo costantemente. Anche in questo caso abbiamo modalità d’azione che si sono connaturate nel nostro modo di relazionarci con i colleghi.

Il lavoro remoto comporta in modo intrinseco e strutturale un livello di isolamento tra le persone molto maggiore di quello cui sono abituate, le interazioni sono frequentemente asincrone e si ha scarsa visibilità dello stato dei colleghi (al telefono, concentrati su qualcosa, in pausa, si prendono un caffè, ecc.). Per quanto siano sofisticati i tool che utilizziamo, la comunicazione diventa ancora più complicata che nelle relazioni abituali.

Durante la Unconference dell’Agile Day dello scorso Novembre abbiamo approfondito le dinamiche di un’azienda con solo collaboratori in remoto. Li scelgono, attraverso un percorso di selezione molto stringente, come in un club. Alcuni, dopo qualche settimana preferiscono lasciare. E in questo caso stiamo parlando di sviluppatori, con caratteristiche e attitudini molto orientate al lavoro autonomo.

Nell’ultima settimana ho trovato conferma di questo parlando con diverse persone che lavorano da casa: in pochi giorni sono passate da un ritmo sostenibile al rischio di overburn. La giornata è diventata un continuo passare da una call ad una chat, da una mail ad una telefonata, tutte attività che nella quotidianità dell’ufficio non sono poi così frequenti, che adesso “rubano” tempo alle attività primarie creando stress e aumentano il carico di ore in cui si rimane accesi.

Dobbiamo essere più organizzati e autonomi, prendere microdecisioni continuamente. Si inizia quindi a lavorare per outcome (per esiti) e non per output (attività svolte) o peggio per ore di presenza. È un radicale cambio di paradigma.

Tutto questo va prima abilitato, poi fatto crescere e quindi monitorato e costantemente motivato. Qualcuno cercherà comunque una guida, perché è nella sua natura e sradicarlo non porterà alcun vantaggio all’organizzazione.

È, come sempre, un esercizio di equilibrio.

Personalmente con un po’ di preparazione vedo praterie di opportunità all’orizzonte, soprattutto perché è almeno un decennio (se non oltre) che abbiamo a disposizione casi di successo di aziende che lavorano in modo distribuito e che sfruttano alcune delle pratiche e dei paradigmi della metodologia Agile.

Possiamo allentare un po’ il controllo e lasciare che i team si auto-organizzino, che prendano decisioni comuni. Spostare il modo di “fare il capo” da un comodo “command & control” ad una più sfidante servant leadership.

Possiamo studiare come rendere visibile lo stato del lavoro di team e allinearci con meeting cadenzati.

Possiamo iniettare un po’ di coraggio nelle organizzazioni che guidiamo e soprattutto in noi stessi.

Il cambio radicale è lo spostamento sul dove alcune decisioni si prendono: più responsabilizzazione delle persone e meno controllo.

“In fondo lo smart working è anche questo…” (https://wawawiwacomics.com/)

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